Le righe che seguono non vogliono essere un’analisi approfondita della situazione bosniaca, pretendere di farlo sarebbe una mancanza di rispetto per coloro che, da anni, tentano di dipanare la matassa balcanica rendendola comprensibile al grande pubblico. Viene spontaneo pensare agli amici di East Journal ed alla loro meritoria opera di decostruzione degli stereotipi. Quelle che vado a scrivere sono solo delle impressioni, le mie impressioni, suscitate da un brevissimo viaggio in Bosnia che ha portato me ed un amico a Sarajevo e Mostar.

Autostrada, infinita autostrada che da Gorizia ci porta a Ljubljana e Zagabria, per poi sfociare in quella che ritengo essere la pianura pannonica. Non so perchè, ma la deviazione per Budapest mi coglie mentre sono assorto in pensieri sulla realtà di questa regione durante la Seconda guerra mondiale: grano e nazismo. Sto guidando, da ore e voglio arrivare a Sarajevo, ecco il bivio di Slavonski Brod che ci porterà a destinazione, ed ecco anche le prime sorprese. Superate le formalità di frontiera ci accoglie un cartello enorme: “Welcome in the Republika Srpska“; di bandiere bosniache manco l’ombra.

Io ed il mio amico siamo confusi, controlliamo anche se abbiamo sbagliato confine, tutto è come dovrebbe essere tranne il fatto che le bandiere bosniache non ci sono proprio, solo tricolori bianchi rossi e blu. Per vedere la prima bandiera bosniaca bisogna attendere parecchi chilometri; si entra in Bosnia senza la Bosnia, davvero una stranza senzazione. Ovunque regna il cirillico, l’esatto opposto di quanto avviene a sud di Mostar, zona di influenza croata dove i cartelli in cirillico sono cancellati con lo spray. In compenso, superata la città del famoso ponte ci sono bandiere della Croazia ovunque.

L’identità bosniaca, questo mistero. L’impressione è che la Bosnia sia essenzialmente Sarajevo, se qualcuno dovesse decidere che la Bosnia è di troppo presumo non ci voglia molto per cancellare questo paese, che anche nei suoi confini stenta ad essere se stesso. Al di là di questo, Sarajevo è bellissima con le sue moschee ed i suoi pochi turisti, molti meno della Mostar che sa vendersi alle comitive dirette a Medjugorje. Per caso sono arrivato a Sarajevo durante il periodo di ramadan, potendo ammirre l’incessante svolgersi delle preghiere notturne, in un atmosfera molto particolare.

La Bosnia è un paese a maggioranza musulmana, personalmente credo sempre più proprio per via dell’esigenza identitaria. A Mostar non mi era mai capitato, nei viaggi precedenti, di ascoltare i richiami dei muezzin che affascinano e trasportano in un altro tempo, ho sentito davvero pulsare la storia nelle vene quando un’illuminazione mi ha fatto percepire la rilevanza sociale dell’Islam, distogliendomi dagli ultimi video di Sara Tommasi. Ma rispetto al passato ho visto più povertà, molti più bambini chiedere l’elemosina ma non voglio entrare nel campo minato della banalità e quindi mi fermo qui.

Cadere nella trappola del banale parlando di Bosnia è davvero semplice, basta dire che le ragazze succinte di Sarajevo rappresentano la volontà del paese di lasciarsi alle spalle la guerra, che ancora segna la Bosnia ovunque. Ma quelle ragazze non hanno la guerra negli occhi, come invece le generazioni venute prima di loro. La Bosnia deve essere il simbolo della tolleranza e della pluralità, vaso di coccio tra colossi d’acciaio, scienza armata cemento. La Bosnia è bella, andateci, io spero di tornarci anche se questa volta, sono finito contro un muro con la mia macchina, aggiungendo distruzione a distruzione.