Mi sono accorto di avere appena festeggiato dieci anni dal momento in cui ho lasciato una vita fatta di benefit aziendali, ferie programmate e posto fisso, scegliendo invece di andare a vedere un po’ il mondo. Nel corso dei miei anni di viaggio in Asia la domanda nel titolo me la sono posta più volte, promettendomi che prima o poi avrei tentato di trovare una risposta. Puntualmente penso se viaggiare faccia bene incrociando due categorie diverse tra loro, ossia i gruppi Facebook dedicati al viaggio e gli espatriati italiani all’estero, intendendo qui in particolare l’Asia visto che è il continente in cui ho viaggiato più spesso.

I gruppi Facebook sono sommersi di stereotipi, i thailandesi che sorridono, i bambini felici con niente e via dicendo, senza dimenticare che il livello organizzativo delle domande è spesso “ho due giorni dove vado?”.  Emerge da questi gruppi, qui la connessione con gli expat, anche un velato razzismo per le popolazioni locali considerate dei poveretti rimasti indietro sulla via del progresso, con un cortocircuito per cui si va a cercare il non turistico per poi lamentarsi degli standard non adeguati. Eppure basta digitare la domanda del titolo in qualunque motore di ricerca per essere sommersi da risposte del tipo “viaggiare fa bene e rende migliori!”

Di particolare interesse, il fatto che la maggior parte dei siti che affrontano il tema del viaggio come miglioramento della propria vita sia a tema psicologico, con o senza vendita di consulenze. Quasi come essere felici viaggiando, ovviamente con annessa crescita spirituale, debba essere la norma e provare paure o insoddisfazioni sia qualcosa da correggere assolutamente. Questo fa riflettere su come il mondo in cui viviamo abbia di fatto rimosso il negativo, un palese contrasto tra la vita di ogni giorno sempre più complicata ed il pensiero che debba essere invece sempre più facile e felice. Ed ecco allora un altro cortocircuito.

Se viaggiare rende migliori come si spiega quanto sopra? Come possibile soprattutto che ci siano persone che si comportano a New York come a Kinshasa, a Parigi come a Hotan? Questo è dovuto al fatto che il rapporto con il viaggio si inserisce in un contesto di mutamento sociale, quasi antropologico. È diventato infatti un oggetto di consumo da sfoggiare, un diritto individuale preteso, “fatemi viaggiare non importa dove ma fatemi viaggiare”. L’atto stesso del viaggiare, Leed direbbe il transito, ha assunto una rilevanza talmente forte da quasi cancellare l’obiettivo finale del viaggio, ossia la meta verso cui siamo diretti.

Nel transito il viaggiatore è infatti in una sorta di terra di nessuno – titolo di un celebre libro dello stesso Leed dedicato all’identità personale in guerra –  non ha veramente lasciato ciò da cui proviene ma non ha nemmeno fatto i conti con lo sconosciuto, con l’arrivo che obbliga a mettersi in gioco per adattarsi ad una realtà nuova. Una messa in discussione che oggi spaventa, viviamo in un tempo dove di certezze c’è dannatamente bisogno e le trasformazioni fanno paura. Se aggiungiamo l’esibizionismo da social ecco un vero e proprio gioco di specchi, per cui il viaggio diventa uno spostamento che non sposta proprio nulla.

Uno dei vecchi trucchi dei viaggiatori è non raccontare il negativo, poche le eccezioni tra cui va segnalata quella di Manganelli con le sue lamentele dallo stile unico. Esporre i problemi avuti in viaggio è come confessare i filtri su Instagram, un pericoloso scendere dal piedistallo che potrebbe minare l’autostima. Da sempre il viaggiatore racconta, ma il racconto non è sempre verità perché ogni racconto ha un pubblico che vuole essere affascinato. Il problema è la mancanza di consapevolezza, la confusione tra verità e finzione; senza consapevolezza molto probabilmente autori come Claudio Magris avrebbero fatto un altro lavoro.

I viaggi, tra l’altro, provocano profondi ed ingenti danni: ambientali, gli spostamenti incidono pesantemente nell’inquinamento del pianeta; sociali, creano profonde diseguaglianze tra chi sa approfittare del turismo e chi no; culturali, devastano lo stile di vita locale dando una falsa illusione di ricchezza a cui tendere. Tutti aspetti sempre più al centro di studi e ricerche in vari settori, dall’economia all’ecologia. Molto probabilmente uno stop ai viaggi farebbe bene al pianeta, ma questo è presumibilmente impossibile nonostante la pandemia ci abbia mostrato come per la natura avere gli umani fermi non sia niente male.

Quindi viaggiare fa male? Personalmente credo il viaggio sia uno strumento e, come tutti gli strumenti, dipende da come lo si usa. La questione del viaggio va inserita in un contesto più ampio, di critica al sistema stesso in cui stiamo vivendo che, esattamente come rischia di fare il turismo, crea profonde disparità ma soprattutto spinge verso l’omologazione e la mancanza di pensiero autonomo. Non si può ripensare il viaggio senza tornare ad una vera cultura dell’incontro con l’altro, che non significa visitare lo zoo degli arretrati. Viaggiare può davvero fare bene, ma bisogna accettare il rischio di mettersi in gioco sul serio.

Fonte immagine: independenttravelcats.com