Da meta emergente del turismo internazionale a paese in guerra, questo il tragitto del Myanmar – il nome ufficiale della Birmania – che potrebbe a prima vista potrebbe stupire. Potrebbe stupire perché, in realtà, la Birmania rischia di diventare un caso da manuale sull’abbaglio del mondo occidentale verso realtà diverse, a cui sono applicati degli schemi mentali senza lo sforzo di capire il contesto locale. La Birmania, in ogni caso, resta un paese complesso dalle sfaccettature numerose come i templi della valle di Bagan, una delle meraviglie di questo paese che rischia di affondare sempre più nelle contraddizioni della contemporaneità.
La società birmana è infatti attraversata da numerose linee di fratture, che si accompagnano senza però sovrapporsi alla moltitudine di etnie che vivono in territorio birmano. Il governo centrale controlla solo una parte del paese, mentre decine di eserciti, milizie e bande varie hanno esercitano di fatto il loro potere soprattutto nelle zone di frontiera, finanziandosi con il traffico di droga o di materie prime. La Birmania si trova poi incuneata tra India e Cina, due superpotenze con forti interessi nella zona, senza dimenticare le lunghe e pesanti sanzioni internazionali che hanno duramente colpito le fasce più deboli della popolazione.
Un’utile guida per orientarsi nel caso birmano è L’altra storia della Birmania, libro scritto da Thant Myint-U storico birmano che da Cambridge, dove svolge attività di ricerca, decide nel 2007 di trasferirsi a Rangoon per prendere parte al processo di pace nel suo paese, mettendo al servizio della Birmania le sue competenze tra cui le esperienze per conto dell’ONU in Cambogia e nell’ex-Jugoslavia. La sua lettura delle vicende è quindi fatta dall’interno, frutto del suo lavoro e delle numerose interviste con i protagonisti dei fatti narrati. Thant Myint-U, inoltre, ha il pregio di mettere a fuoco alcuni aspetti visti con occhio birmano.
Dopo una prima, utilissima, introduzione storica, in cui emergono le responsabilità coloniali inglesi nel gettare le basi dei futuri conflitti birmani, l’autore inizia un racconto in cui ogni capitolo è unito da un filo rosso che immerge il lettore nel tentativo di capire le vicende della Birmania contemporanea. Thant Myint-U ripercorre le tappe del rapporto tra la giunta militare e l’opposizione tra le cui figure spicca sicuramente Aung San Suu Kyi, facendo allo stesso tempo emergere i punti chiavi attorno cui ruota la sua narrazione, prima di tutto la difficile ricerca di un’identità birmana una volta apertosi il paese al resto del mondo.
L’incapacità di sciogliere il nodo dell’identità birmana sarebbe infatti alla base del conflitto odierno, la cui origine va rintracciata sia nel periodo coloniale che nel costante rifiuto delle etnie in lotta di far parte di uno stato birmano senza la concessione di forti autonomie. Nonostante i tentativi di accordo tra governo e ribelli, le varie tregue sarebbero saltate per gli interessi economici in gioco, per i contrasti interni alle singole etnie sul cambiamento dello status quo, per l’incapacità delle autorità birmane di coinvolgere in un processo di costruzione statale ma anche per l’intervento di potenze straniere come Cina e Stati Uniti.
Altro elemento estremamente rilevante sottolineato dall’autore è proprio la presenza ingombrante delle potenze straniere, anche nel sostenere un processo di democratizzazione senza capire la realtà birmana. Il mondo occidentale ha fatto della Birmania un baluardo della democrazia, pompando fondi senza riflettere quale democrazia poteva essere adatta al contesto birmano. Emblema della superficialità occidentale è la caduta nella polvere dell’immagine internazionale di Aung San Suu Kyi, accusata di essere rimasta in silenzio di fronte alla tragedia dei rohingya per non compromettere i rapporti con i generali dell’esercito.
In chiusura potremmo dire che la tragedia dei rohingya è emblematica di come cavalcare il nazionalismo per logiche di potere, senza però riuscire a creare un’identità collettiva, non possa che portare alla creazione di un nemico, in questo caso i musulmani che vivono in Birmania. Poco importa che si tratti di etnie presenti sul territorio da secoli oppure persone di recente immigrazione, quello che conta è che siano diversi e che possano essere usati come capro espiatorio. Quello che la Birmania ci insegna è che tentare di eliminare la complessità non può che aprire le porte alla catastrofe, nella speranza che non sia troppo tardi.
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L’ha ripubblicato su The Owl Criminology.
Mi hai aperto lo sguardo su di un mondo a me del tutto ignoto
Ne sono felice, quando ho aperto il blog – ormai 10 anni fa – il mio obiettivo era proprio questo: diffondere conoscenza. Grazie!
Cavalcare il nazionalismo porta sempre a dei disastri
Assolutamente, tanto più quando lo stato nazione è in piena crisi o impraticabile, come in Birmania..