Per la maggior parte dei lettori il bacino dello Yarmouk è un luogo pressoché sconosciuto, eppure rappresenta l’ultima grande roccaforte dell’ISIS caduta nel sud sella Siria. Quella siriana è una guerra strana, presente sui mezzi di informazione europei a fase alterne, diventando il centro di tutto in occasione di un attentato per poi sparire subito dopo, una guerra troppo difficile da presentare per tv e giornali alla ricerca dell’articolo perfetto, quello fruito immediatamente. Le vicende sono complicate, come quando i russi accusano gli americani di permettere all’ISIS di riorganizzarsi indisturbati nel campo profughi di Rukban.
Un interessante rapporto ONU uscito recentemente smorza i toni trionfalistici con cui si è accolta la sconfitta dell’ISIS. Ci sarebbero infatti ancora circa 30mila combattenti islamici tra Siria ed Iraq, ma soprattutto sarebbe in corso un’accelerazione del mutamento da proto-stato a rete terroristica internazionale, con un notevole incremento dell’attività in aree non arabe come Afghanistan, Libia, sud est asiatico e Africa occidentale. Il flusso degli aspiranti jiadhisti i alla volta del califfato si è invertito, ora il rischio sono i combattenti che lasciano la Siria con la missione di diffondere il verbo di Daesh altrove.
Fare proselitismo significa anche invadere sfere d’influenza altrui, proprio quello che sta accadendo in Afghanistan dove lo Stato Islamico si scontra con i Talebani, il che è ben rappresentato della proclamazione dell’emirato islamico del Khorasan, mentre una miriade di gruppi e gruppuscoli, compreso Al Qaeda, è lacerato dalla fedeltà all’uno oppure all’altro dei due contendenti principali. Questa la realtà dietro al vertiginoso aumento degli attentati in Afghanistan, una guerra tra due modelli profondamente diversi di fondamentalismo attorno a cui ruota un caleidoscopio di interessi sia locali che internazionali.
Dell’emirato del Khorasan farebbe parte anche il Tagikistan, dove in un recente attentato sono stati uccisi quattro turisti occidentali. L’attentato è stato rivendicato dall’ISIS ma le autorità tagike hanno subito attribuito gli omicidi al partito d’opposizione, il Partito della Rinascita Islamica già fuorilegge, in una dinamica centroasiatica abbastanza frequente: ossia l’uso della minaccia portata dal fondamentalismo islamico per attaccare l’opposizione interna. L’ISIS ha rivendicato anche gli attentati del 20 agosto in Cecenia, una storica spina nel fianco russo ma resta da capire se rivendicazioni e autori coincidono.
Un libro molto interessante per scoprire il progetto del Califfato Islamico per la conquista dei musulmani non arabi è A oriente del califfo, a cura di Emanuele Giordana. Il libro è una raccolta di saggi che abbraccia diverse aree geografiche, tutte accomunate dal fatto di non essere la culla del fondamentalismo ma l’oggetto della penetrazione delle idee radicali islamiche. Le analisi degli autori sono illuminanti, riuscendo a coniugare la storia del radicalismo nelle varie aree dell’Asia con la capacità di andare a fondo nell’indagare le ragioni per cui questa ideologia riesce ad attecchire, creando in diversi luoghi delle situazioni letteralmente esplosive.
Di particolare acume in questo volume sono i saggi dedicati a paesi chiave del sudest asiatico come Indonesia e Filippine, paesi in cui l’Islam è presente da tempo e dove ad essere attratti dal radicalismo sarebbero anche giovani esponenti delle classi medie il che sfata uno dei miti della jihad come riscatto da una vita di miseria e frustrazione. Nonostante la decisa repressione che le autorità di questi paesi hanno intrapreso nei confronti dei militanti islamici, la creazione di un emirato islamista nel popoloso sudest asiatico resta uno dei principali obiettivi internazionali dichiarati dall’ISIS nei suoi proclami.
Altro paese dove l’attenzione verso il fondamentalismo islamico sta raggiungendo livelli molto alti è la Cina. Il pericolo islamista è percepito da Pechino sin dal 2009, quando ad Urumqi esplosero scontri tra cinesi di etnia han ed uighuri, gli abitanti del Xinjiang di etnia turca. Proprio il Xinjiang sta diventando un’area cruciale per la politica cinese, essendo la porta verso l’ovest ma anche una regione storicamente musulmana. Che degli uighuri abbiano combattuto con Al Qaeda è provato, ma le misure antiterrorismo applicate dal governo centrale nel Xinjiang hanno attirato anche le critiche dell’ONU, per la loro durezza ed estensione.
Su circa 11 milioni di abitanti registrati in Xinjaing 1 milione è detenuto, mentre quasi il doppio è sottoposto a misure di rieducazione. Tra le limitazioni imposte agli uighuri dalle autorità ci sono il divieto di digiunare durante il ramadan, la proibizione all’ingresso nelle moschee per i minorenni, l’obbligo di taglio della barba e di installare sui cellulari un’app per la localizzazione. Tuttavia l’Islam in Cina non è solo Xinjiang, come ben illustra un libro notevole quale L’Islam in Cina. Dalle Origini alla Repubblica popolare, scritto da Francesca Rosati. Un’opera dal taglio storico che affronta il tema affascinante della cultura musulmana in Cina.
In Cina l’Islam ha una Storia antica, fatta di carovane che percorrevano la Via della seta e rotte che solcando i mari portavano la parola di Allah. Grande impulso alla presenza della fede musulmana sul suolo cinese fu dato dalla dinastia mongola degli Yuan, vicenda che ovviamente la Rosati non trascura. Oltre agli uighuri la grande componente islamica di Cina è costituita dagli hui, cinesi di etnia han ma d fede maomettana che nel XIX secolo furono protagonisti di imponenti rivolte contro il potere centrale. L’autrice evidenzia come gli hui furono protagonisti anche della nascita della Repubblica e dello sforzo di coniugare Islam e socialismo.
Tornando all’ISIS questi due libri dimostrano come sia praticamente impossibile ridurre il fondamentalismo islamico a facili termini utili per lo show mediatico, la presenza del jihadismo varia infatti da luogo a luogo trovando ovunque ragioni a cui aggrapparsi per tentare di attecchire tra la popolazione. L’ISIS forse è stato troppo presto dato per sconfitto, dimenticando come la Storia ci insegna che spesso le idee sopravvivono a coloro che le propugnano; questo pone dei problemi che vanno ben al di là del problema militare o della prevenzione. Il fondamentalismo rischia così di essere uno slogan dietro cui si celano gli interessi più diversi.