Il 13 dicembre scorso in Turkmenistan si sono festeggiati i 20 anni della politica di neutralità, in tale occasione il presidente turkmeno Gurbanguly Berdimuhamedov ha inaugurato presso Mary, i cui abitanti sono stati costretti a restare in casa per tutta la giornata, i lavori di costruzione del gasdotto TAPI, un progetto che risale agli anni novanta e che sembra mostrare le difficoltà in cui versa sempre più il Turkmenistan. Un mese dopo l’inaugurazione la data di fine lavori è ufficialmente slittata di un anno, a conferma di come questo progetto difficilmente vedrà la luce e dell’esistenza di un’incognita turkmena.

Questo gasdotto, di cui ci siamo più volte occupati, dovrebbe portare il gas turkmeno verso l’India, attraversando Afghanistan e Pakistan, portando nella regione sviluppo, energia e soldi almeno nelle intenzioni dei quattro paesi che ne detengono le quote (85% Turkmenistan e 5% a testa gli altri tre). Di TAPI si è iniziato a parlare da circa un ventennio tra ritardi, ricerche di fondi, instabilità regionale e mancanza di interesse da parte degli investitori. Per il Turkmenistan rappresenta una vitale arteria di diversificazione ora più che mai, visto che l’80% delle sue esportazioni sono verso il mercato cinese.

Il rallentamento della crescita cinese ed il ribasso del prezzo del greggio hanno significato per il Turkmenistan un 2016 da dimenticare, con l’ingresso in una crisi che rischia di mettere a repentaglio la stessa struttura sociale e politica del paese che detiene la quarta riserva di gas al mondo. A causa della posizione geografica le alternative sono poche, il Caspio ha uno status legale non ancora chiarito e Mosca si oppone al passaggio del gas turkmeno mentre le forniture verso l’Iran sono state (nuovamente) bloccate a seguito di mancati pagamenti risalenti al tempo in cui Teheran era sotto embargo internazionale.

Il TAPI diventa quindi centrale ma, come detto, soltanto un mese dopo la cerimonia inaugurale le autorità turkmene hanno spostato la data di fine lavori al 2020, firmando un contratto con una compagnia tedesca per supervisioni e progettazioni preliminari, suscitando le proteste afghane. La sezione del condotto in Afghanistan è stata a lungo motivo di ritardi nella realizzazione del gasdotto, per via della guerra in corso. Oggi sembra che i talebani siano favorevoli alla realizzazione del TAPI e, significativamente, il Pakistan ha dichiarato di essere disposto a fare pressioni sugli studenti coranici.

Per la sicurezza del TAPI sarebbe previsto l’impiego di circa 7mila soldati afghani, la cui disponibilità dipenderà anche dal ritiro o meno delle truppe americane dal paese. Le stesse truppe che il Turkmenistan non ha voluto difendessero il suo confine meridionale, quello con l’Afghanistan. Se il nuovo presidente statunitense Trump ha apparentemente intenzione di ridurre la presenza americana nella regione, il vecchio imprenditore Trump ha numerosi legami con imprenditori e compagnie qui presenti. Non è quindi escluso che gli interessi americani saranno difesi con accordi bilaterali invece che militarmente.

Ad aspettare le decisioni di Donald Trump è anche l’India, la cui presenza in un progetto comune con l’odiato Pakistan è fluttuante in base alle vicende politiche dei due paesi. In un recente incontro pubblico autorità indiane avrebbero infatti dichiarato che la partecipazione al TAPI rientra nelle questioni di sicurezza nazionale rendendo fondamentale la decisione del capo dell’esercito, ventilando inoltre la possibilità di richiedere che il passaggio del gasdotto passi dall’Iran invece che dal Pakistan. Sembra prorpio che il TAPI sia destinato a restare ancora un gasdotto fantasma.

Fonte immagine: The Express Tribune